Negli ultimi anni la neuroscienza sta prestando grande attenzione allo studio degli effetti psicofisici delle tecniche di meditazione e dello Yoga. In questa sezione riportiamo alcune tra le tantissime interessanti ricerche.

 

Fra i tanti risultati entusiasmanti eccone alcuni che suggeriscono che:

 

Per non parlare degli studi di Ellen Langer presso il Dipartimento di Psicologia della Harvard University, che suggeriscono che se allenassimo le nostre menti a non aggrapparsi in modo automatico alle credenze condivise su ciò che non è possibile, la nostra salute può migliorare ad ogni età.

 

In altre parole, anche se l’influenza della mente e delle emozioni sulle condizioni del corpo non è l’unico fattore che ci permette di mantenerci sani o di migliorare la nostra salute, si tratta comunque di una relazione vitale e imparare a conoscerla può essere una chiave di volta per prenderci cura di noi in ogni momento.

 

E voi, quanto siete consapevoli di come il corpo influenza la mente?

 

E come vi prendete cura di voi?

 

 

 

 

STUDIO SU COSA ACCADE DOPO UN RITIRO DI MINDFULNESS

 

Vi siete mai chiesti cosa potrebbe succedere ad un gruppo di 25 lavoratori molto stressati, dopo avere partecipato ad un ritiro di mindfulness di tre giorni? E’ quello che hanno provato a indagare i ricercatori della Carnegie Mellon University, guidati da David Creswell, che hanno pubblicato la loro ricerca su Biological Psychiatry.

Ecco ciò che è emerso:

 

1)attraverso una scansione cerebrale prima e dopo il ritiro, si è osservata una maggiore connettività delle regioni del cervello legate all’attenzione e al controllo esecutivo, che suggerisce una migliore capacità di resilienza e di gestione dello stress.

 

2)attraverso un semplice esame del sangue, a quattro mesi dalla conclusione del ritiro, si è osservata una riduzione dei livelli di Interleukina-6, un marker biologico associato a malattie infiammatorie come il cancro, l’Alzheimer e le condizioni autoimmuni.

 

Se confermati da ulteriori studi, i risultati suggeriscono che i cambiamenti nelle connessioni neurali conseguenti alla meditazione potrebbero, di fatto, ridurre il rischio di sviluppare queste malattie, persino a 4 mesi di distanza.

 

In altre parole, la mindfulness sembra migliorare la capacità del cervello di gestire lo stress, e questi cambiamenti potrebbero influire su una vasta gamma di condizioni di salute legate allo stress, come per esempio la nostra salute infiammatoria.

 

E' evidente che, essendo il campione molto limitato, la ricerca necessita di repliche prima di potere dire con certezza che praticare mindfulness influisce sullo stato di infiammazione nel nostro corpo. Ma lo studio si aggiunge a un crescente numero di prove scientifiche che suggeriscono che praticare mindfulness produca cambiamenti veri e misurabili nel corpo.

 

Per approfondire il tema di come le condizioni della nostra mente possono influenzare le condizioni del nostro corpo, suggerisco di vedere The Connection Documentary (https://www.theconnection.tv/). E' un film documentario sulle ultime frontiere della medicina integrata.

 

The Connection nasce dalla ricerca personale di Shannon Harvey, giornalista e filmmaker, che dopo essere stata diagnosticata con un disturbo autoimmune molto grave, ha deciso di viaggiare il mondo in cerca di quello che le mancava per guarire. Il documentario parla del rapporto fra mente e corpo, stress e sistema immunitario, emozioni e malattia,  credenze e guarigione, placebo e nocebo, espressione genetica e meditazione.

Vengono intervistati, fra gli altri, Jon Kabat-Zinn, e scienziati del calibro di Herbert Benson, autentico pioniere nell’ambito della medicina integrativa, Alice Domar, che ha fatto scoperte sorprendenti sul rapporto fra stress e infertilità, Andrew Weil, fondatore del Center for Integrative Medicine in Arizona, Sara Lazar, le cui scansioni cerebrali dimostrano che la meditazione può cambiare letteralmente il cervello migliorando non solo le nostre capacità cognitive, ma rendendoci anche più empatici, compassionevoli e resilienti allo stress. E vengono raccontate, insieme alle scoperte di scienziati e ricercatori che sono davvero l’avanguardia della medicina, le storie vere, sorprendenti e commoventi di persone che sono guarite da malattie come il cancro e la sclerosi multipla aggiungendo i suggerimenti della medicina integrativa al loro piano di cura.

The Connection illustra la connessione diretta fra le condizioni della nostra mente e le nostre condizioni di salute, e ci mostra come, anche se la scienza può essere complessa, le soluzioni per prendersi cura di sé sono sorprendentemente semplici. Chiarisce che possiamo contrastare gli effetti dannosi dello stress coltivando una risposta di rilassamento altrettanto potente, attraverso pratiche di meditazione. Dimostra che le emozioni possono impattare sul decorso di una malattia e sulla durata della vita di ognuno di noi. Spiega i meccanismi dietro alle credenze, che possono incrementare gli effetti di una cura puramente biologica dal 30 al 50 percento. Esplora le ultime scoperte su come la mente può influenzare il nostro funzionamento genetico, e la velocità con la quale invecchiamo.

 

E’ un film che suggerisce in modo chiaro, serio e potente che abbiamo molte più possibilità di influenzare il nostro stato di salute di quanto non siamo soliti credere.

I benefici della mindfulness secondo Jon Kabat-Zinn

 

La meditazione può trasformare le nostre vite e avere un potere di guarigione profondo. Fa questo lavorando sull’interezza dell’organismo, intervenendo sui nostri cromosomi, sulle nostre cellule, sul nostro cervello, e influenza di fatto tutti gli apparati del corpo, incluso il sistema immunitario e come funziona il cervello sotto stress e nelle situazioni difficili, come regoliamo le nostre emozioni e così via. Stiamo iniziando a comprenderlo solo ora!

La meditazione trasforma anche il cervello che, essendo un organo che fa esperienza, cambia continuamente la sua forma, e cambia anche come decidiamo di vivere le nostre vite, e in un certo senso come decidiamo di mantenere le nostre menti.

La meditazione cambia infatti non solo le nostre idee, le nostre opinioni, e quanto vi rimaniamo intrappolati dentro, ma di fatto cambia la nostra relazione con i pensieri.

E quando guardiamo ai cambiamenti della struttura del cervello, non solo al cervello che funziona diversamente, ma proprio alla struttura del cervello che cambia per effetto della meditazione, vediamo che questa viene reclutata al servizio di una maggiore compassione, equanimità e saggezza e questo lo si può vedere in diverse regioni del cervello che, di fatto, diventano più spesse.

Certo, ciò che conosciamo è una minima parte in relazione a ciò che non sappiamo, è sempre così nella scienza! Conosciamo una piccola parte, pensiamo di averne compreso l’importanza, ma sarà interessante vedere cosa accadrà fra dieci anni, o fra vent’anni, quando sapremo così tante cose in più e probabilmente sorrideremo pensando a ciò che credevamo di sapere.

Ma credo che se la scienza sarà rigorosa e aperta al guardare le cose senza farsi influenzare dal desiderio di mostrare che la meditazione ha certi effetti, il risultato sarà che i suoi benefici saranno incontrovertibili e che dovremmo insegnare questa pratica ai nostri figli già da quando sono bambini, che dovremmo in un certo senso renderli immuni allo stress, capaci di affrontare le sfide della vita, e sarebbe irresponsabile lasciare che un essere umano diventi adulto senza dargli la possibilità di affinare il proprio strumento affinché egli possa suonarlo anche nelle situazioni più difficili.

E questo strumento è il corpo, e questo strumento è il cuore, e questo strumento è la mente, e questo strumento è la nostra capacità di relazionarci con gli altri e con la natura.

E non saremo più convinti di essere il centro dell’Universo”

 

~ Jon Kabat-Zinn

MIND-WANDERING, MINDFULNESS E NEUROSCIENZE:

intervista a Nicola De Pisapia

 

Non so se siete tutti al corrente del fatto che all’inizio di quest’anno è uscita, pubblicata sulla prestigiosissima PlosOne e successivamente segnalata anche sul Corriere Innovazione, una ricerca internazionale coordinata da Alessandro Grecucci, Remo Job e Nicola De Pisapia, ricercatori presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento, che ha dimostrato per la prima volta che praticare mindfulness, con il suo invito a osservare la nostra vita emotiva senza affrettarci a criticare ciò che proviamo, può migliorare la nostra capacità di gestire le emozioni e le nostre relazioni con gli altri.

Presa da entusiasmo per questo meraviglioso prodotto italiano, qualche settimana fa ho contattato Nicola De Pisapia, che oltre a svolgere attività di ricerca è anche co-fondatore di Neocogita, un’azienda che si occupa di rendere le nostre menti ancora più brillanti attraverso gli strumenti e le proposte più aggiornate della ricerca neurocognitiva.

Una chiacchiera tira l’altra, e alla fine abbiamo pensato che potesse essere una buona idea fare a Nicola una piccola intervista per condividere con voi alcuni degli elementi fondamentali di questa ricerca, e in che modo sono rilevanti per le nostre vite. A partire dalla nostra abitudine a portare l’attenzione lontana da questo momento.

Cosa è il mind-wandering?

Comprendere cosa sia il mind-wandering è molto utile per capire la mindfulness. Si tratta di un termine inglese che potrebbe essere tradotto con: vagare con la mente. Per intenderci, mind-wandering è il quotidiano e ordinario distrarci da ciò che stiamo facendo: il sognare ad occhi aperti, il proiettarci nel futuro cercando di anticipare qualcosa che faremo,  il rivivere scene passate, il monologo interiore, la conversazione immaginaria con qualcuno. Mind-wandering è dunque la nostra vita mentale, il “film” che ci scorre in testa quando non siamo concentrati con i nostri sensi in un compito che coinvolge pienamente la nostra attenzione.

Quanto tempo trascorriamo in uno stato di mind-wandering nella nostra vita quotidiana?

Secondo gli studi più recenti, quasi la metà della nostra vita mentale quando siamo svegli è spesa in uno stato di mind-wandering, che coinvolge le aree cerebrali della “rete cerebrale di default”, composta da alcuni nodi cerebrali molto estesi, come ad esempio il mediale prefrontale (subito dietro il centro della fronte) e il posteriore cingolato (nella parte interna sul retro della testa).

Comprendere i meccanismi cognitivi e le basi neuronali del mind-wandering può aiutarci a comprendere anche come funziona la mindfulness, dal momento che l’allenamento mentale che ha luogo durante questa pratica altro non è che un metodo per diminuire il mind-wandering.

Puoi spiegarmi cosa è la mindfulness dal punto di vista neuroscientifico?

Per mindfulness s’intende essenzialmente l’insieme di due componenti. La prima componente riguarda l’auto-regolazione dell’attenzione, che viene mantenuta sull’esperienza immediata aumentando in questo modo la consapevolezza degli eventi mentali nel momento presente. La seconda componente coinvolge l’adozione di un orientamento verso le proprie esperienze caratterizzato da accettazione, curiosità e apertura.

Queste componenti in ambito scientifico sono intese sia come tratti della personalità, e quindi per intenderci come aspetti che possono già far parte del nostro carattere anche se non abbiamo mai praticato mindfulness, ma anche come qualità che possiamo migliorare tramite alcune specifiche tecniche di meditazione, come ad esempio la focalizzazione sul respiro.

Come la mindfulness agisce sull’attività cerebrale?

Nelle persone che sono più mindful, e che lo sono o per attitudine personale o perché si allenano attraverso le tecniche meditative della mindfulness, si riscontra una minore attività cerebrale nella rete cerebrale di default, che citavo prima come sostrato neuronale del mind-wandering. Ecco perché capire il mind-wandering – o chiacchiericcio mentale, come mi piace chiamarlo- aiuta a comprendere meglio la mindfulness: sono una l’opposto dell’altro! La mindfulness è la tendenza a focalizzarsi, il mind-wandering è la tendenza a distrarsi.

E quindi come è una persona mindful dal punto di vista scientifico?

Una persona mindful è una persona che ha maggiore consapevolezza delle proprie emozioni e reazioni psicofisiche, includendo anche la risposta da stress. La persona mindful è più attenta al presente, controlla la tendenza alla distrazione, tende a mantenere i suoi obiettivi, ha una scarsa tendenza al rimuginio sul passato o alle preoccupazioni per il futuro.

Questa definizione non coinvolge dunque la dimensione della gentilezza amorevole e della compassione?

Il termine mindfulness viene utilizzato in ambito scientifico per riferirsi alle specifiche tecniche di meditazione di cui abbiamo parlato finora, quelle cioè in cui si allena principalmente l’attenzione su un target specifico (ad esempio sul respiro). In questo tipo di allenamento non vi è dunque il diretto obiettivo di allenare aspetti emotivi.

Quando parliamo più in generale di meditazione facciamo invece riferimento a svariate tecniche di allenamento mentale, che vanno oltre il solo allenamento dell’attenzione. La meditazione che coinvolge più direttamente la compassione e la gentilezza è la “compassion meditation” (detta anche “loving kindness meditation”, o “mettā bhāvanā” nella tradizione buddista). In questa forma di training mentale sono probabilmente coinvolti meccanismi cerebrali in parte diversi da quelli di cui abbiamo parlato finora.

Queste altre forme di meditazione sono solo di recente divenute oggetto di studio scientifico, per cui non emerge ancora un chiaro modello neurocognitivo come per la mindfulness.

Il vostro studio ha rilevato gli evidenti benefici, in termini di regolazione emotiva, per chi pratica mindfulness, e il valore che questa pratica può avere nel contrastare alcuni fra i disturbi psicopatologici più diffusi nella società occidentale. Puoi dirmi qualcosa in più su questo?

Con Alessandro Grecucci e Remo Job e altri colleghi del dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento ci siamo chiesti: quali sono i processi attraverso cui la mindfulness regola le nostre emozioni? Questa tecnica può essere applicata alle emozioni sociali, cioè a quelle emozioni che nascono nelle nostre relazioni con gli altri? Praticare mindfulness può cambiare il nostro comportamento nei confronti degli altri?

I risultati hanno mostrato come la mindfulness alteri la percezione soggettiva e fisiologica di queste emozioni interpersonali e agisca modificando in positivo anche l’interazione nel comportamento sociale degli individui.

Per esempio in chi pratica mindfulness la propensione a vendicarsi di un torto subito è minore. Inoltre le situazioni che in partenza possono apparire negative tendono ad essere reinterpretate dalle persone mindful in modo tale che l’aspetto negativo si riduce, e ci si focalizza di più sugli aspetti positivi e sulla risoluzione del problema.

Quali sono gli altri studi importanti in corso e di cosa si stanno occupando?

Nei nostri laboratori all’Università di Trento abbiamo individuato come le persone meno mindful abbiano le aree cerebrali dello stress e dell’ansia, in particolare l’amigdala e alcune aree della rete cerebrale di default, più sviluppate ed estese rispetto alle persone che invece sono più mindful.

In altri laboratori neuroscientifici del mondo la ricerca sulla mindfulness – sia come tratto della personalità che come training mentale – è molto attiva. I risultati sono molto incoraggianti per la costruzione di protocolli che possano permettere alle persone di aumentare il loro benessere.

Che cosa consiglieresti ai lettori di Semplicemente Mindfulness che volessero approfondire  questo argomento?

 

Se i lettori di Semplicemente Mindfulness volessero esplorare il web su questo tema, consiglio di tenere d’occhio il lavoro di ricerca che si svolge presso i laboratori di Richard Davidson alla University of Wisconsin Madison, oppure i laboratori di Amishi P. Jha, Professore presso la University of Miami.

 

Articolo tratto integralmente da: http://www.semplicementemindfulness.com